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Cosa sei tu che mi fluisci nel sangue e sali nella mente mina in un campo
lunedì 30 settembre 2013
giovedì 26 settembre 2013
Confessioni ultime, Mauro Corona
Confesso che ho letto parecchio di questo autore definito dai più come un personaggio burbero e caratteriale ma io, che non lo conosco di persona, lo giudico da come scrive, e posso affermare di aver appreso molto della sua personalità soprattutto da come si racconta in questa sua ultima fatica.
Si racconta senza restrizioni, esponendo la sua anima, così vicina alla natura, e andando a scavare nella sua infanzia infelice, perché l’infelicità è una parola che lui ha cancellato dal vocabolario.
A me piace soprattutto per la schiettezza e l’onestà di mostrarsi così come è, senza riserve e senza filtri, con la sua faccia segnata da ogni esperienza come un albero è segnato dai secoli del tempo.
Mi ha particolarmente colpito un racconto che riguarda la sua infanzia, quando andava alle elementari e non ha mai ricevuto un paio di stivali di gomma neri, marca Aquila, che invece avevano ricevuto altri suoi compagni di scuola. Ogni anno si aspettava di riceverli e ogni anno arrivava, imperterrita, la delusione.
qualcosa che lo ha ferito profondamente come la mancanza di affetto da parte dei genitori, valore primario per quanto riguarda l'educazione individuale.
Ci ho colto tante sfumature che vorrei ricordare perché nel suo raccontarsi lui mette in primo piano gli altri, nominando sempre la tragedia del Vajont e il fatto che potrebbe ripersi dal momento che l’uomo sembra non voler apprendere dagli errori passati continuando a costruire anche dove la natura manda segnali di sofferenza.
Mi piace quel suo modo di descriversi selvatico, il suo rifugio in alta montagna, quando sente il bisogno di isolarsi per scrivere…e poi c'è il taccuino, prezioso compagno di viaggio, dove lui annota le frasi dei grandi; cita Wittgenstein, Borges, Brodskij, e tanti altri che ammiro e che ho ritrovato nelle mie letture.
* Lasciamo tracce, come volpi sulla neve fresca*
C'è una pluralità, nel suo linguaggio, che coinvolge l'umanità intera!
Mi piace quel suo eleggere la fragilità a bene assoluto, come dono dolcissimo da coltivare.
* * *
Nel libro è contenuto un cd, un film della durata di circa 45 minuti dove viene mostrato il suo territorio, il suo laboratorio, il suo sentiero...devo ancora vederlo e mi pregusto il momento con grande desiderio perchè la *Montagna* la sento nel cuore da sempre.
Tempo di letture
Ho preso dal blog di Elio questa bellissima immagine perchè mi ci ritrovo.
Sto leggendo libri interessanti e sto preparando le mie considerazioni di lettura che mi piace curare nei minimi dettagli.
Non devono sfuggire le impressioni a fior di pelle così come non devo sfuggire le sane critiche.
è anche così che si impara a conoscersi!
sabato 21 settembre 2013
Impressioni di Settembre
Il guizzo lascia cerchi di memoria
tra le acque imprigionati
leggeri come il capo
chino di quel cormorano
lontano orizzonte che stempera
note sul lago.
Abbiamo tastato
le ossa facciali
- azzardo di un gioco di pelle -
L'azzurro delle cime
si rivela.
si rivela.
Custodisco la tua biglia
come il più alto ricordo
nel taschino di stoffa
chiuso da una cerniera.
Una protezione
dentro i miei fotogrammi.
Colgo, la veste di un canto
la trasformo, a mia somiglianza
così avviene
la comunione con Dio.
Un mondo segreto ci popola,
nella solitudine accende la sua ombra
e il fuoco interiore divampa.
La riflessione
ci accosta all’anima.
È l’avvento di una stagione
che ha il potere di scioglierla.
[e in un momento
di nuovo sfiorisce
la rosa].
*
Congiunzione:
Interposizione
della luna innanzi al sole
centro con centro.
L’infinito
è dentro la materia.
mercoledì 18 settembre 2013
Improptu
Baudelaire lo aveva capito
ma anche Nietzsche,
l'olfatto è il senso più acuto
- Potente -
Si manifesta come l'origine
in fattispecie di ricordo,
si strappa dal muschio
di neuroni impazziti
si abbraccia al lichene sui muri
giovedì 12 settembre 2013
Quattro parole sulla poesia
Tra i poeti che più mi hanno colpito, nel corso degli anni, ci sono
stati gli autori della neoavanguardia italiana, in particolare i Novissimi, in
particolare Giuliani e Sanguineti. Mi toccava, oltre alla loro poesia, la loro
idea che la poesia fosse un’operazione di salvaguardia e salute del linguaggio.
“Rito demente e schernitore”, “pantomima incorporea”, la poesia si doveva
misurare, per Giuliani, “con la degradazione dei significati e con
l’instabilità fisiognomica del mondo verbale in cui siamo
immersi”. Attraverso questa immersione il poeta doveva sperimentare (e fare
sperimentare al suo lettore) “tutta la possibile ambiguità e comprensività del
linguaggio”. Questa presa di coscienza sul linguaggio sarebbe stata certamente
salutare.
Mi sembrava questo, quando leggevo per la prima volta queste
parole, un modo nuovo e diverso di concepire la poesia e di focalizzare il
fatto, comunque cruciale, che la poesia di parole è fatta, e che rappresenta il
modo più complesso e articolato per farne uso. Dunque, sì, certamente: la poesia
teneva in movimento il linguaggio, lo manteneva vivo, innovativo, e lo faceva
immergendosi nella sua stessa degradazione.
Ma c’era anche qualcosa che non mi quadrava, in questo. Sospettavo,
più che altro, perché non mi era affatto chiaro, che una concezione della poesia
di questo tipo fosse in qualche modo riduttiva. Ma riduttiva di che? mi dicevo,
d’altra parte, visto che in fondo la poesia non è fatta d’altro che di
parole.
Oggi so quale è stato l’errore dei Novissimi – errore
teorico, perché quanto alla loro poesia io continuo ancora ad
apprezzarla. L’errore stava nell’idea di linguaggio che essi avevano, ma che non
apparteneva soltanto a loro. Diciamo pure, l’errore stava nell’idea di
linguaggio che allora, in generale, si aveva.
Consisteva, l’errore, nel pensare al linguaggio verbale come a un
reame separato; come se esistesse da un lato il linguaggio e dall’altro
esistessero le cose, o meglio, gli eventi e le cose; ovvero tutto quel mondo
oggettivo che al linguaggio spetterebbe di esprimere. Sicché ancora Giuliani
poteva, nel 1965, esaltare “il primato della struttura, dell’invenzione
linguistica”, concludendo che “il reale è irreperibile nella poesia se non quale
oggetto di quel processo che è il linguaggio”.
Oggi noi sappiamo che il reale, almeno per come lo percepiamo, non
è, già in sé, meno avvolto di significato di quanto non lo siano le parole.
Quando percepiamo gli eventi noi li abbiamo già rivestiti di senso, anche
a monte del linguaggio verbale. E il linguaggio verbale non è il reame separato
del senso contrapposto al principato degli oggetti e al ducato degli eventi. È
piuttosto una specifica regione dell’universo del significato, un universo che
comprende anche eventi e oggetti al proprio interno – e i confini tra le varie
regioni sono tutt’altro che ben definiti.
Se volessi riformulare a mio modo la poetica dei Novissimi oggi,
dovrei pensare che la poesia compie un’operazione di salvaguardia e salute
non del linguaggio ma del senso, pensando al senso come alla
relazione generale tra noi e ciò che ci circonda: eventi, parole, oggetti, altre
persone comprese. Evidentemente il linguaggio verbale è un’area importante di
questo impero del senso, non foss’altro perché la poesia è fatta di parole, ma
lo è prima di tutto in quanto rimanda ad altro, perché è il punto di partenza di
innumerevoli catene di significato.
Dunque, inevitabilmente, la poesia è sperimentazione, ed è
sperimentazione sul senso. La sperimentazione intesa come sperimentazione
sul linguaggio verbale, vincolata ad agire sulle sole parole, (come, tra i
Novissimi, solo Balestrini è arrivato a concepire – ma che ha avuto altre e
importanti eco altrove) è inevitabilmente un cul de sac. Le parole non
esistono da sole, ma in relazione col più vasto universo del significato. Fare
esperimenti con le parole, dimenticandosi di tutto quello che sta loro attorno,
è come giocare al meccano invece di costruire case e ponti. Anzi, per dirla
meglio, affinché non si pensi che sto contrapponendo la futilità del gioco
all’utilità del costruire: limitarsi a fare esperimenti con le parole è come
baloccarsi con il meccano invece di giocare a costruire davvero il cupolone di
Michelangelo.
La poesia è ben di più di un semplice fatto di parole. La poesia
non si limita a dire. Le relazioni tra le parole di un testo poetico possono
rivelarsi mimetiche di quelle tra le cose; la poesia può dipingere mentre
racconta; può essere musica di suoni e insieme ritmo di significati.
Quello che noi dobbiamo fare, nello scrivere poesia, è far in modo
che le nostre parole diventino lo strumento più esatto e spietato di
penetrazione nel mondo. Perché la poesia descrive, sì, ma prima di tutto
muove il suo lettore, lo trasforma, trasformando il reale davanti ai suoi
occhi. Lo diceva già lo stesso Giuliani, nel 1961, quando sosteneva che il
contenuto di una poesia è ciò che essa fa nel suo lettore, è la
trasformazione del reale che essa opera in chi la legge.
E il reale, si badi bene, è fatto di eventi e di oggetti, ma
anche di parole, proprio come la poesia.
Insomma, impariamo dalla vecchia avanguardia, ma anche da Pasolini (che pur ne
era l’obiettivo polemico), che la poesia ha un compito, una missione. Non
bisogna intenderla come una missione politica, anzi è necessario evitare di
rinchiuderla in qualsiasi ghetto specifico, che sia quello della politica, o
quello del linguaggio, o tanto meno nella torre d’avorio edificatale a suo tempo
dai poeti ermetici. La poesia deve vagare libera nel mondo, e parlare di
politica, se crede, di linguaggio, se crede, con tutto il diritto di parlare
degli alberi, se crede.
Dove riterrà che il senso si sia degradato, si degraderà essa
stessa per esprimerlo. Ma Adorno è morto da abbastanza tempo, oggi, per
lasciarci liberi di ritenere che non vi sia stato solo Auschwitz a determinare
la storia, e quindi ciò di cui l’arte deve parlare.
Perché ciò che importa davvero non è di che cosa la poesia parli,
ma dell’immagine delle cose e della nostra relazione con loro che essa ci
rimanda. Più questa immagine ci rivela aspetti nuovi, correlazioni impensate,
nuovi sensi del mondo, e più la poesia adempie al suo scopo. Ci vuole, per la
poesia, un linguaggio esatto e spietato come lo sono le cose quando si rivelano
a noi per la prima volta, nella loro magica e inesausta brutalità.
* * *
Daniele Barbieri
lunedì 9 settembre 2013
Connettoma
C’è riscatto nella voce, ma il silenzio è l’infinito
In sé non ha un volto.
(E. Dickinson)
L’ordine delle cose
non va compromesso
L’equilibrio interrotto
conduce alla follia
e questo riguarda la Natura
come l’ambiente che abita il cervello.
L’isolamento, in certi casi, è la salvezza.
Il ghiacciaio nasce
dietro l’apparenza
un rosso rubedo lo tinge
e l’argento, sul mio lago diluisce
ogni contrasto.
Potrei abbandonarmi
agli umori del corpo
a questo desiderio
atavico di lacrime
mentre sfoglio questi archi di pensiero,
questi fogli di memorie
imbevuti di saggezza
la poesia che incontenibile trabocca
dal crepuscolo del tempo
dal trapasso di chi ha assunto
la mia carne, il mio paesaggio.
Occorre non perdere
il contatto primordiale
con la natura e la deità
che si tramanda dalla terra
dentro i miti, lungo i corsi.
È ciò che si può definire: salvezza.
La cura dell’altro, l’azione
può sembrare utile
a definire uno scopo
valido per superare
una crisi esistenziale
ma definisco più valido
assumere nel proprio corpo
la giusta pace da trasmettere
con il pensiero soprattutto.
Cartografo della mente
resta sempre il potere
di dirigerla bene.
Tante cose si dicono
si dicono gli inganni
l’uomo abbocca,
pesce senza
consapevolezza.
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giovedì 5 settembre 2013
La via del rame, Danilo Vitali
Si ritiene
che il Re dei pescatori non cerchi altro
che anime.
Eugenio Montale (Diario del '71 e del '72)
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