giovedì 28 luglio 2016

Pausa blog


1651

Un verbo fatto carne è raro e
consumato tremando
e non diffuso ancora
ma se io mi sbaglio
ognuno ha assaporato
in estasi da ladro
il cibo adatto alla
sua forza individuale -

Un verbo che respira chiaramente
non muore - ed è coerente come Spirito
e spirerà, se Lui -
"si fece carne e venne in mezzo a noi"
non c'è condiscendenza
come questo linguaggio che consente
come questa filologia amata.

*

Emily Dickinson tradotta da Massimo Sannelli

lunedì 25 luglio 2016

Ombra mai fu



Abbiamo bisogno del sorriso
per rigenerare la nostra mente
per preservare
l’innamoramento in ogni cellula vivente,
per far si che il non vivente
vi si aggrappi.

*
È terapeutico
ascoltare il rumore della penna
nel silenzio circostante
sfrigolare sulla carta
provocando la magia.

*
C’è un buon odore quassù
vicino alla Val Grande
di menta e coriandolo,
di infinito passato remoto
stemperato nel cantico dei boschi.

*

Leggere “La via del Sole”
e sentirmi rinascere;
anche questa è luce.



* * *

giovedì 21 luglio 2016

Alta quota


Sempre attuali le cloache
così le chiamava il Poeta
di Marradi
- massima stagnante
nei bassifondi dell'umanità -

*

Chissà quante frustrazioni hai dovuto subire
secondino in mezzo ai lupi
- la barbarie del sapere -
Eppure ti diletti
a contemplare i disastri
in mimesi con Dio.

*

Quando si acquisisce la sicurezza
nulla appare più leggero
dell'aria buona che si respira
ad alta quota.
A una quota intermedia
la consapevolezza è un dono.




venerdì 15 luglio 2016

Ligustro





Questo è il tempo delle ortensie

a coppa fiorite nel palmo

di mano radiosa

il tempo in cui muore la danza

di dita su alate tastiere

nell’era in cui tutto svanisce

in primis gli sguardi

e l’arte si piega alla tecnica

delle prigioni

 

Rimpiango le stanze

di una memoria breve

che ha fissato la sua ombra nell’istante

di un percorso a ritroso

dentro il giardino guidato

 

Ma questa è la nostra condanna.



giovedì 14 luglio 2016

Vena che pulsa







“E’ nella tua lingua/che la mia lingua prende/la forma perfetta del suono”; qualsiasi sia il riferimento esterno (e privato) di questi versi, va sottolineata la funzione di tramite essenziale che la parola (quella parola scelta, e non un’altra) volta per volta assume nel gioco osservativo-immedesimativo che, come abbiamo suggerito sopra, costituisce la struttura portante genetica del testo. E questo gioco si realizza nella dialettica felicemente non risolta, se non provvisoriamente, tra l’Io poetante e il Tu (“il tuo linguaggio”, “E’ nella tua lingua”): o forse talvolta risolta ma col sacrificio fecondo della propria identità, della propria più intima appartenenza (“”Tua (mia) profondità”, “Sacro/il respiro – nostro – ”, “dalla sua – mia – profondità”, “Spalmo spalmami spalma”, “il tuo respiro calmo/è la mia lingua”).    


E in aggiunta va messo in evidenza il fatto che il campo operativo d’elezione di tutta questa frenesia osservativo-immedesimante è il corpo umano stesso, che con tutti questi elementi naturali intrattiene, di immagine in immagine, le più diverse relazioni, sia attraverso il respiro che lo tiene in vita, sia attraverso la pelle che lo protegge e al tempo stesso fa da tramite al contatto, sia attraverso la bocca, mobilitata col bacio nel dare e nel ricevere l’energia, la luce, la vita.


Ed è soprattutto il respiro che, come suggerisce Bariffi, “racchiudendo ogni forma”, s’incarica demiurgicamente di fare della terra un ‘mondo’ umano; esso potrebbe equivalere, peraltro, sul versante sensibile, a ciò che qui, come protagonista nascosto, invisibile, impercettibile ma onnipresente, si assume il compito di render conto della possibilità della Bellezza: ossia al pensiero (“risucchia ogni bene/bellezza di un pensiero/che penetra il fiore”), alla luce del pensiero (“bellezza silenziosa – mio pensiero/la luce dentro gli occhi”). Il pensiero non è mai assunto come un assoluto in questi versi, bensì sempre relativizzato al corporeo, sia rispetto all’interiorità dell’agente-soggetto sia rispetto all’esterno, ossia agli elementi che compongono nella loro mescolanza il mondo, e che in quell’interiorità si rifrangono come in uno specchio. Sia l’esterno che l’interno corporei diventano allora il luogo privilegiato dell’Eros, rispettivamente secondo modalità paniche (rispetto alla natura esterna) e secondo contatti di carezza, di bacio, di sguardo, a testimoniare la presenza innamorata dell’Altro (si vedano i testi: “Distendo la mia giugulare[…]” etc, “E ancora la tua voce […]” etc., “Scintilla/sul pelo dell’acqua la schiuma […] etc. ).


 



“E’ la somiglianza, che vince su tutto”: una possibile interpretazione complessiva di questa piccola raccolta di versi, delegata a questo verso,  potrebbe appunto ipotizzare questa doppia (esterno/interno, elementi naturali/corpo) relativizzazione dell’assoluto-pensiero all’insegna del motore erotico essenziale; “poiché in essa [la somiglianza] riflettiamo/l’unione di pensiero e desiderio”, ossia – se l’ipotesi qui formulata ha un senso – nella somiglianza (non nell’identità!) la reciproca attrazione dei due estremi produce un pensiero desiderante, o un desiderio pensoso, in ogni caso una conciliazione, tutta umana nella sua provvisorietà, in grado di descrivere il senso profondo di questa “unione”: “l’ascetica utopia che non si arrende”, o anche, e sotto un profilo più intimo ma non meno intrigante, “il “mio mare interno/oscuro come la verità”. L’oscurità, va detto, che non contraddice la gloria, onnipresente in questi versi, della luce vivificante (a tal proposito si vedano le tavole di Cini, per esempio quella dedicata alla sera o quella dedicata alle rose, nelle quali le linee curve traducono in termini visivi – soli, lune, fonti di luce comunque – l’estrema mobilità suggerita dai versi), al contrario ne costituisce l’alterità, l’asintoto che è dovere umano, tutto umano, di raggiungere per portarlo, per quanto provvisoriamente, a rischiaramento.           




Gianmarco Pinciroli (seconda parte)


 

lunedì 11 luglio 2016

Sui "Premi letterari" ...



Copio e pubblico questa nota di Antonio Moresco per l'attualità dell'argomento
e per l'attualità di Leopardi:




Nei giorni scorsi, dopo essere stato escluso dalla cinquina dei finalisti allo Strega, mi sono permesso – rompendo il galateo italico intriso di disincantato cinismo – di mettere per iscritto alcune mie considerazioni, in un articolo che è apparso su "La Repubblica" del 17 giugno 2016 e che qui riporto nella sua interezza.

Baci, abbracci e pugnalate alle spalle, cabaret che si muovevano a stento nella ressa, file di calici, scrittori e scrittrici in fibrillazione, omaggi insinceri, uomini potenti nella piccola cerchia dell’editoria, dei media e dell’accademia, novantenni con il bastone che vantavano la loro longevità di uomini e di giurati, ragazze e signore in abiti da sera, astrologhe... Ieri sera, nelle stanze e nelle terrazze sovraffollate della Fondazione Bellonci, in un situazione di estraneità, ho assistito al consumarsi di un antico rito, quello della votazione per eleggere la cinquina dei finalisti dello Strega, dalla quale è stato escluso il mio ultimo romanzo intitolato L’addio, che – se può valere qualcosa l’opinione dell’autore – a me pare il più ardimentoso dei miei romanzi brevi. Qualcuno in rete, nelle settimane scorse, mi aveva così definito: “Un alieno al Premio Strega” Per come sono andate le cose, aveva visto giusto.

“Come fate a vivere così?” mi veniva da domandare guardandomi attorno “Perché state con le gambe così piantate dentro questa melma? Perché avete dato a questa melma il nome di cultura? Non lo sapete che quello della poesia e della letteratura è il più grande e irradiante sogno che sia mai stato sognato?”

Certo, non mi aspettavo niente, tanto più che ho presentato questo libro non con il potente editore con cui avevo pubblicato i precedenti ma con un altro, per rispondere all’invito di un amico cui mi legava un debito di riconoscenza, perché gli scrittori non sono o non dovrebbero essere dei robot tesi soltanto alla loro promozione e “carriera”, a mio parere, e anche perché, se la situazione è tale per cui l’unica alternativa che viene data è tra vincere male e perdere bene, allora preferisco perdere bene. Certo, non sono una persona ingenua al punto di non sapere come stanno le cose e non mi faccio illusioni. Ma quello che ho visto è stato più prevedibile e desolante di quanto avessi immaginato. Tutti sanno e tutti fanno finta di niente, come se fosse naturale un simile orrore.

Sapevo quanto il gioco fosse truccato. Eppure, certo per mia inguaribile ingenuità, a 68 anni e dopo avere scritto tanti libri e dopo quello che sta iniziando a succedermi all’estero, mi ha impressionato il fatto di non essere stato neppure ritenuto degno di entrare nella cinquina degli attuali finalisti, come mi ha impressionato che nel più noto premio nazionale tutti i finalisti, tutti, nessuno escluso, abitino a Roma.

Nella mia vita ho fatto ampiamente esperienza di questo rigetto da parte della società della cosmesi culturale, che ho anche raccontato in modo diretto in Lettere a nessuno, ed è anche vero che quella dei rifiutati (refusés) è una storia lunga e che è spesso proprio dalle loro schiere che ci arriva ancora adesso ciò che può portare il terremoto nelle nostre vite e far rivivere le nostre anime. Eppure, se non sei disattivato, il fatto di saperlo non mette evidentemente al riparo dal provare dolore e scandalo.

Diversi anni fa avevo scritto da qualche parte: “Quando il gioco è truccato, l’unica è non giocare. O fare un gioco diverso.” Ho sbagliato a dimenticarmi di quelle mie stesse parole. Non mi succederà una seconda volta di andarmi a cacciare in una situazione simile. Ma è certo che continuerò a fare un gioco diverso.

Per allargare un po’ l’orizzonte, ripeto qui quello che vado scrivendo da tempo: il mondo culturale italiano partecipa delle stesse logiche e comportamenti che vengono invece esecrati con aria di superiorità nella politica e persino nella criminalità organizzata. Ogni cosa, anche nata con le migliori intenzioni, viene piegata a logiche di cerchia o di cosca, snaturata nella sua essenza, resa funzionale a interessi o deliri di piccolo potere terminale e gregario, in un gioco chiuso e di sponda tra editoria, accademia e media. Libertà e coraggio sono una merce rara, così come lo sono in altri campi dove il rischio che si corre è molto più grande. Anche per questo la cultura italiana di questi decenni ha chiuso gli orizzonti invece di spalancarli e sfondarli, si è attestata in una zona morta e ha preteso che tutto fosse a propria immagine e somiglianza, per questo non è riuscita a fare argine al male ma è diventata essa stessa una forma di questo male.

Ringrazio i miei due coraggiosi presentatori, Daria Bignardi e Tiziano Scarpa, per la loro libertà, convinzione e fervore, Antonio e Jacopo che mi sono stati vicini in questa battaglia, senza speranza come quella del protagonista del libro che abbiamo inalberato, l’editore Giunti e le ragazze toste che mi hanno seguito, le persone che hanno dato il loro appoggio e il loro voto a questo libro così anomalo e poco accomodante, per le cose sincere e toccanti che mi hanno detto a voce durante la mia serata catatonica e poi per telefono.

Sono arrivato in Italia dalla Croazia, interrompendo per qualche giorno un cammino intitolato “Il sogno dell’Europa”, per partecipare alle incombenze legate al premio, e fra pochi giorni mi ricongiungerò ai camminatori della nostra piccola e prefigurativa Repubblica nomade camminando con loro in Bosnia Erzegovina, fino a Sarajevo, e allora la fatica e il sogno prenderanno il sopravvento e potrò gettarmi alle spalle queste miserie.

Aggiungo ora a queste prime riflessioni altre e più generali considerazioni, dettate da quanto è successo dopo. Perché l’uscita di questo articolo – come era prevedibile, giudicato da molti inelegante e ingenuo – ha dato il la a un coro di disapprovazione, in modi e forme che a mio parere rivelano molto bene come stanno le cose nel nostro Paese e anche nel piccolo mondo gregario della cosiddetta cultura.

Sono stato accusato, ad esempio, di non saper stare al gioco, senza entrare nel merito del tipo di gioco di cui si sta parlando, perché anche un gioco deve avere la sua credibilità, non deve essere truccato, perché anche e soprattutto il gioco è una cosa maledettamente seria.

Qualcuno (Tullio De Mauro, presidente del Premio stesso) mi ha intimato: “Se Moresco conosce il nome del truccatore, lo dica!”, fingendo di non sapere e di non vedere che in realtà la situazione è infinitamente più grave, perché non siamo di fronte a un singolo malvagio truccatore, ma a un intero sistema bloccato e truccato, anche se mi rendo conto che qui da noi i sistemi funzionano così e si reggono solo così, che a toccare qualcosa crolla tutto, e che in genere le persone non segano il ramo su cui sono sedute. Ma vorrei dire a De Mauro, verso il quale non nutro nessuna personale inimicizia: “Le pare trasparente e giusto, ad esempio, che una parte consistente dei giurati, notoriamente, non legga neppure i libri o tutti i libri presentati e non verifichi perciò di persona il loro singolo valore e pregio ma voti per scuderie e cordate di appartenenza, giri e cerchie editoriali e amicali? Che la quasi totalità delle vittorie assegnate dal Premio che lei presiede vengano da molto tempo attribuite quasi esclusivamente a libri pubblicati dai due più potenti gruppi editoriali italiani (ora diventati uno solo)? Che, per scendere nel recente specifico, in questa edizione del Premio che pure si dice nazionale tutti i finalisti, nessuno escluso, siano scrittori che abitano a Roma e che quindi hanno potuto sfruttare al meglio i giri di amicizie e complicità personali? Non le pare che ci sia qualcosa che non va in tutto questo? Non le pare che, anche solo per questo e tralasciando altre cose, si possa parlare di un premio privo di limpidezza e credibilità letteraria? Come si fa a chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò e a nascondersi dietro formule e dialettiche di rito? Io non accuso le singole persone legate al Premio, alcune delle quali ho potuto conoscere di persona, per le quali ho provato simpatia e che non mi sono sembrate cattive persone. Ma questo non toglie che le cose stiano così, che il sistema funzioni così, dentro questo blocco e questa complicità, e non elimina il dolore – per chi ha l’ingenuità di credere in quella cosa che è stata chiamata letteratura– nel vedere come funziona il più noto premio letterario italiano. Ma è lo specchio dell’Italia, mi ribatte qualcuno con la consueta accettazione cinica che caratterizza il nostro Paese, tutta l’Italia è così e funziona così, come puoi pretendere che un premio letterario sia diverso? E invece questo, a mio parere, aumenta la gravità della cosa e il dolore, non li diminuisce.

Ma adesso, in questo breve intervallo prima della mia partenza per la Bosnia, vorrei dire ancora qualcosa sulle reazioni apparse in rete alla mia presa di posizione, dove vengo fatto segno a un vero e proprio coro di riprovazione e sarcasmo. C’è chi, credendosi superfurbo solo perché supercinico, mi da dell’idiota e mi dice: “Ma come, non lo sapevi che quel premio è così? E allora perché ci hai partecipato? Sei scemo!” Ho già spiegato il perché ho partecipato e non voglio ripetermi, come ho anche detto che è stata da parte mia un’ingenuità e uno sbaglio che non ripeterò una seconda volta, ma si dà il caso che ci sia a volte nelle persone anche qualcosa che le può magari far apparire umane-troppo umane, sprovvedute, ingenue e idiote agli occhi dei supercinici e superfurbi, e si dà anche il caso che, molto spesso, gli scrittori degni di questo nome appartengano – maledizione!– a questa risibile categoria e non a quella dei superfurbi.

Altri mi danno addosso dicendomi che non sarei stato elegante a esprimere il mio scandalo dopo l’esclusione, perché l’Italia è fatta così e quindi bisogna evidentemente accettare le cose così come stanno (“E’ l’Italia, bellezza!”). Ma è proprio questo il veleno che corrode ogni cosa nel nostro Paese (non a caso il nostro è il Paese che si è inventato la commedia all’italiana, questo ridere di tutto e ridersi addosso, sentendosi affratellati e decolpevolizzati al ribasso).

C’è poi chi fa delle generalizzazioni parlando degli scrittori e dei libri presenti al Premio come se fossero degli insiemi matematici, stabilendo regole generali di comportamento che bisognerebbe osservare, senza entrare nel merito dei singoli scrittori e dei singoli libri, che possono essere molto diversi gli uni dagli altri. Altri mi accusano di non saper stare al gioco e di non saper perdere. Saper perdere è una bella cosa, e non è detto che alla fine perdere sia la cosa peggiore. Ma, se la gara è truccata e senza credibilità, non si può nemmeno dirlo? E’ la stessa cosa perdere in un gioco truccato che perdere in un gioco leale? Il premio Strega è un gioco, mi viene anche detto. Come a dire. “Si sa che è una pagliacciata, se ci si entra bisogna accettarlo”. Fatemi capire: è una pagliacciata o è una cosa seria? Perché, se è una pagliacciata, bisogna dirlo subito e allora chi lo vuole può entrarci vestito da pagliaccio e gli altri sanno che devono stare fuori. Non si può dire nello stesso tempo che è una pagliacciata e che è una cosa seria, tanto da presentarla nella sede del Parlamento alla presenza della Presidente della Camera dei Deputati della nostra Repubblica. Ma, si sa… è l’Italia, bellezza! È questa la risposta dei disincantati agli incantati.

Insomma, non solo il Premio stesso ma anche molte delle prevedibili denigrazioni al mio gesto di non accettazione che sono apparse in rete mi pare che esprimano bene il costume italico.

La cosa che mi ha più colpito durante le iniziative pubbliche cui ci è stato chiesto di partecipare è avvenuta a Sanremo, nel teatro del Casinò, durante una sorta di illuminante gemellaggio tra il Festival della canzone italiana e il Premio Strega. In quell’occasione la prima cosa che è stata proiettata su uno schermo è stato un documentario che mostrava con allegro cinismo alcuni degli illustri trombati al Premio, in un pendant con gli illustri trombati al Festival. Così da una parte si vedevano Gadda, Pasolini, Calvino (che tra l’altro non davano prova di quel divertito disincanto che io stesso sono accusato di non avere mostrato, ma che al contrario non le mandavano a dire), dall’altra Vasco Rossi, Lucio Battisti (hanno avuto almeno il pudore o la furbizia di non mostrare anche il povero Tenco). “Ma come?” mi dicevo “E lo esibite così! Mettete le mani avanti così! E, come se non bastasse, ci scherzate anche sopra? Non vi ponete il problema di come sia potuto succedere che un Premio che dovrebbe premiare il meglio e trarre la sua ragion d’essere e la sua dignità da questo ruolo che si è pubblicamente assunto bocci ad esempio Pasolini e premi invece Bevilacqua con uno dei suoi libri peggiori? Non vi passa per la mente che c’è evidentemente qualcosa di molto profondo da cambiare e terremotare in questo Premio che, se rappresenta l’Italia, non ne rappresenta certo il volto migliore? Invece le risposte, anche oggi, sono sempre le stesse: non bisogna prendere le cose sul serio, non bisogna provare indignazione e dolore per come stanno le cose, bisogna essere dei disincantati, degli ignavi, bisogna stare al gioco anche quando il gioco fa spavento, perché, perché… perché è L’Italia, bellezza!

Ma ora vorrei chiudere queste riflessioni riportando alcuni brani tratti dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani di Leopardi, scritto quasi due secoli fa ma che impressiona ancora per la sua attualità, e la cui profondità e verità ho potuto toccare con mano anche nella piccola vicenda di cui sto parlando e che ho sperimentato di persona.

«Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per così dire convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa, e secondo questa cognizione, che in essi è piuttosto opinione e sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai più delle altre nazioni. Or da ciò nasce ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare. Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita, sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e dell’immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggiore peste dei costumi, de’ caratteri e della morale. Non si può negare; la disposizione più ragionevole e più naturale che possa contrarre un uomo disingannato e ben istruito della realtà delle cose e degli uomini, senza però essere disperato né inclinato alle risoluzioni feroci, ma quieto e pacifico nel suo disinganno e nella sua cognizione, come son la più parte degli uomini ridotti in queste ultime condizioni; la disposizione, dico, la più ragionevole è quella di un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azione. Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo o non sapendo o non avendo coraggio, o anche col coraggio, non avendo forza di disperarsene, e di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro gli altri che sarebbero sempre ugualmente incorreggibili; volendo o dovendo pur vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; – continuare in una vita che si disprezza, convivere e conversar con gli uomini che si conoscono per tristi e da nulla – il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente di ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo. – Questo è certamente il più naturale e il più ragionevole. Or gli italiani generalmente parlando, e con quelle diversità di proporzione che bisogna presupporre nelle diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intera, si sono onninamente appigliati a questo partito. Gli italiani ridono della vita: ne ridono assai più e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci.»

Ma vorrei concludere con questo meraviglioso elogio della solitudine e della sua medicina, che compare nello stesso libro, in una nota dove l’Autore riporta uno dei suoi Pensieri:

«La solitudine rinfranca l’animo e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe o indebolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure stato interissimo e profondissimo. Ella rinnova la vita interna. In somma, bench’ella sembri compagna indivisibile e quasi sinonimo della noia, nondimeno per un animo che vi abbia contratto una certa abitudine, e con questa sia divenuto capace di aprire e spiegare e mettere in attività nella solitudine le sue facoltà, ella è più propria a riconciliare o affezionare alla vita, che ad alienarne, a rinnovare o conservare o accrescere la stima verso gli uomini e verso la vita stessa, che a distruggerla o diminuirla o finir di spegnerla».

 


giovedì 7 luglio 2016

Varenna




Non perdere tempo a scrivere

tradirai di meno, vai

torna a vedere, vai

ad esempio sulla sera, d’autunno

da solo, a Varenna,

sul molo, in silenzio

nell’ora della luce obliqua

e velata: alle spalle

le case anch’esse in punta

di piedi dai ripidi vichi

ferme a guardare. Meglio

se persona amica t’accompagna

-ma in silenzio – qualcuno

che ti sia indiviso: gioia

lo esige onde farsi

ancora più godibile:

è l’ora della pace. Vai

e vedi e guarda e lascia

che ti prenda la grazia

e tu ami perfino di essere

quello che sei. E meglio è

se qualcuno potesse appena

affidare ai colori (ma quali?

e come?) il prodigio:

con la passione di Van Gogh,

perché duri, e grazia

ancora continui

a sperare: ma tu

non dire nulla! …

 

David Maria Turoldo

 



martedì 5 luglio 2016

Carteggi







Mancano i carteggi

a questo mondo misfatto

nel momento in cui l'ora decade

e il sole rilascia una luce

lontana.

Momento in cui tutto svanisce

e riappare

e il lago si acquieta nell'ombra

del passo, di ciò che hai goduto.

Un eternit

che tocca il fondo

e resiste.


lunedì 4 luglio 2016

Anticipazione nota di Gianmarco Pinciroli e postfazione di Sebastiano Aglieco a: Vena che pulsa



Sono rimasti i poeti a parlarci degli elementi di natura come luoghi d’amore: acqua, aria, fuoco, terra, e luce, “luce del tuo respiro”, “luce dentro gli occhi”, e scintillio (della schiuma dell’onda, ma anche del pensiero “che penetra il fiore”). Fin dalla prima raccolta di Bariffi (“Aria di lago”, 2006), l’osservazione e fin quasi l’immedesimazione col dato naturale rappresenta, anche soltanto ad un rapido sguardo, la cifra specifica del suo immaginario; con la seconda raccolta (“Rapsodia in rosso”, 2013) e soprattutto con la terza (“Geografia dell’altrove”, 2016) questa costante tematica s’approfondisce, s’interiorizza e s’addensa in complessi movimenti di parola e di pensiero, volti sempre più a scandagliare l’intima risoluzione, sua e non assimilabile ad altre esperienze, di quell’osservare, di quell’immedesimarsi originari.

A conferma di questo tratto tematico specifico, in questa breve silloge – arricchita dalle tavole del grafico bolognese Alberto Cini, che utilizza un segno essenziale e preciso per riconsegnare visivamente congiunture tematiche ed emotive ben presenti nel testo – Bariffi ci comunica subito, in esergo, il campo privilegiato entro il quale si muove il suo immaginario: “lussuria liquida sugli zigomi del mondo”.

Gianmarco Pinciroli







E', appunto, l'immagine della rosa, mi sembra, a dare la centralità tematica di questi testi  Le rose le rose ancora le rose / lussuria liquida sugli zigomi del mondo – con tutte le varianti della sostanza effimera del Fiore: – Risucchia ogni bene / bellezza di un pensiero / che penetra il fiore –, e del trascolorare del Rosa e del Bianco nelle albe e nei tramonti.    


Tutto questo desiderio avviene proprio perché la brama di vivere affonda le sue radici nel timore ancestrale dell'incompletato, del non più possibile. L'eros che in queste poesie si palesa, è il movimento delle cose verso le altre cose a loro somiglianti. Per non morire del tutto, per sentirsi parte dello stesso procedere di ogni sostanza verso lo splendore e l'oblio:  Vena pulsante / nervo scoperto / mio mare interno / oscuro come la verità – .


Le immagini di Alberto Cini suggeriscono, poi, regalando al testo un'indicazione di percorso ulteriore, un'escursione verso il favoloso, la sottrazione del colore, un'Alice un po' perduta nella sua “altra” lingua. 


Sebastiano Aglieco